Song of myself

I

Io celebro me stesso, e canto me stesso, e ciò che io presumo, tu lo presumerai, perché ogni atomo che mi appartiene appartiene anche a te. Io sto in ozio e invito la mia anima, io mi chino e ozio a mio agio osservando una spinosa erba estiva. La mia lingua, ogni atomo del mio sangue, formato da questo suolo, da questa aria, nato qui da genitori nati qui come i padri dei loro padri, anche loro di qui, io, ora a trentasette anni perfettamente sano comincio, e spero di non cessare sino alla morte. Credi e scuole lasciati in sospeso, mi ritiro, ne ho abbastanza di quello che sono, ma non li dimentico, e accolgo il bene e il male, lascio che parli seguendo il caso, la natura senza impedimenti con originaria energia.

V

Credo in te, mia anima, l’altro che io sono non deve umiliarsi di fronte a te, e tu non devi umiliarti di fronte a lui. Ozia con me sull’erba, libera la tua gola da ogni impedimento, né parole, né musica o rima voglio, né consuetudini né discorsi, neppure i migliori, soltanto la tua calma voce bivalve, il suo mormrrio mi piace. Penso a come una volta giacemmo, un trasparente mattino d’estate, come tu posasti la tua testa di per traverso sul mio fianco ti voltasti dolcemente verso di me, e apristi la camicia sul mio petto, e tuffasti la tua lingua sino al mio cuore snudato, e ti stendesti sino a sentire la mia barba, ti stendesti sino a prendere i miei piedi. Veloce si alzò in me e si diffuse intorno a me la pace e la conoscenza che va oltre ogni argomento terreno, io conosco che la mano di Dio è la promessa della mia, e io conosco che lo spirito di Dio è il fratello del mio, e che tutti gli uomini mai venuti alla luce sono miei fratelli e le donne sorelle ed amanti, e che il fasciame della creazione è amore, e che infinite sono le foglie rigide o languenti nei campi, e le formiche brune nelle piccole tane sotto di loro, e le incrostazioni muschiose del corroso recinto, pietre ammucchiate, sambuco, verbasco ed elleboro.

VI

Un bambino disse Che cosa è l’erba? portandomene a piene mani; come potevo rispondere al bambino? Io non so che cosa sia più di quanto lo sappia lui. Congetturo che potrebbe essere la bandiera delle mie inclinazioni, tessuta di lana verde-speranza. O congetturo che sia il fazzoletto del Signore, un dono profumato e un sàuvenir lasciato appositamente cadere, che porta il nome del proprietario forse in qualche angolo, che noi possiamo vedere e notare, e dire Di chi sarà? O congetturo che l’erba sia essa stessa un bambino, un neonato del mondo vegetale. O congetturo che sia un uniforme geroglifico, che significa, Spuntando eguale nelle terre aperte e in quelle chiuse, crescendo tra i popoli neri e quelli bianchi, Canachi, Tuckahoe, uomini del Congresso e Negri, do a tutti loro lo stesso, accolgo tutti loro lo stesso. E ora mi sembra la bella chioma mai tagliata delle sepolture. Teneramente ti tratterò, erba tutta riccioli, può darsi che tu traspiri dai petti dei giovani, può darsi che se li avessi conosciuti li avrei amati, può darsi che tu venga dai vecchi, o dai piccoli anzitempo sottratti al grembo della madre, e ora eccoti, tu sei un grembo materno. Questa erba è molto scura per venire dai capi canuti delle antiche madri, più scura delle barbe incolori dei vecchi, scura per venire dai palati di un rosa debole. O mi accorgo alla fine di così tante lingue che mormorano, e mi accorgo che non vengono dai palati per niente. Potessi tradurre i loro cenni sui giovani morti, sulle giovani morte, e i loro cenni sui vecchi e sulle madri, e sui piccoli sottratti anzitempo al loro grembo. Che cosa pensate che siano divenuti i giovani e i vecchi? E che cosa pensate che siano divenuti le donne e i piccoli? Sono vivi e stanno bene, chissà dove, il più minuto germoglio dimostra che davvero non c e nessuna morte, e che se anche ci fosse porterebbe dritta alla vita, e non l’aspetta alla fine per arrestarla, ed è cessata il momento che la vita è apparsa. Tutto continua e si estende, niente si annulla, e morire è qualcosa di diverso da quello che si suppone, qualcosa di più fortunato.

VII

Qualcuno ha mai pensato che nascere è una fortuna? Mi affretto ad informarlo, uomo o donna, che è una fortuna come morire, io lo so. Passo attraverso la morte con il morente e attraverso la nascita con il neonato lavato appena, e non sono contenuto tra il mio cappello e i miei stivaletti, e studio molteplici oggetti, neanche due eguali tra loro e tutti buoni, la terra buona e buone le stelle, e buono ciò che sta con esse. Io non sono una terra, né qualcosa che sta con la terra, sono il compagno, quello che sta con la gente, tutti immortali e insondabili come me, (loro non sanno quanto sono immortali, io lo so). Ogni specie per sé e per ciò che le appartiene, per me il mio maschio e femmina, per me quelli che sono stati ragazzi e amano le donne, per me l’uomo che è orgoglioso e sente quanto ferisca l’essere disprezzato, per me l’innamorata e l’anziana vergine, per me madri e le madri delle madri, per me labbra che hanno sorriso, occhi che hanno pianto, per me bambini e procreatori di bambini. Svestitevi! Non siete colpevoli, né vecchi né rifiutati, vedo attraverso il panno e la seta se lo siete o no, e vado in giro, tenace, avido, instancabile, e non mi lascio scostare via.”

Walt Whitman – estratto da Song of myself