“Se potessi ti comprerei una casa grande enorme capace di contenere la tua anima e la riempirei con tutti i tuoi sogni grandi e piccoli”.
David Grossman
“Se potessi ti comprerei una casa grande enorme capace di contenere la tua anima e la riempirei con tutti i tuoi sogni grandi e piccoli”.
David Grossman
“Non vi è nulla di più soave del suono del silenzio che cammina sull’eco dei tuoi passi”.
Irene Belloni
“La vita è l’infanzia della nostra immortalità”.
J. W. Goethe
“QUANDO CAMMINI CON GLI OCCHI RIVOLTI AL CIELO, LA STRADA E’ DENTRO DI TE”.
Irene Belloni
“Bisognerebbe scrivere sulle lavagne di ogni scuola:
LA VITA E’ UN PARCOGIOCHI”.
Citazione tratta dal film Mr. Nobody
Gli occhi di Eve brillavano come diamanti in un oceano opalescente.
La guardava da lontano, avvicinarsi verso di lui con passo leggero. I loro sguardi penetravano la vastità della notte.
Adam era fermo di fronte al piccolo porticciolo, ad attenderla da alcune ore, vestito con un abito bohemien dai colori sgargianti. Portava un cappello nero e un fiore all’occhiello. Guardò di sfuggita l’orologio d’oro che teneva al polso per controllare l’ora e fu scosso da un brivido improvviso.
«Il quadrante… Le lancette… Non ci sono le lancette… » – commentò tra sé e sé.
«Un attimo ma… Come è possibile! Quando sono uscito di casa, l’orologio segnava…».
Di colpo una violenta emozione gli si dipinse sul viso.
«In realtà… Io non ricordo affatto di essere uscito da casa».
Eve era a pochi metri da lui. Indossava un abito orientale bianco con ampie maniche, ricamato ai bordi con del pizzo nero. Gli andò incontro con passo deciso. Una pace serena illuminava il suo viso.
Adam spalancò gli occhi, meravigliato e la salutò con un cenno della testa. Aprì le braccia non appena Eve fu davanti a lui, per accoglierla. La donna si lasciò andare tra le sue braccia e fu investita improvvisamente da un senso di leggerezza. Era come se le loro anime fossero vicine da tempo, in attesa della loro ricongiunzione sul piano fisico. Di colpo si sentì invasa da una calma assoluta.
– Eve ti attendo da molto – le sussurrò Adam all’orecchio.
Le loro mani erano intrecciate in un vortice luminescente.
– Non appena mi hai chiamato, ti ho raggiunto. Forse il tuo orologio non funziona, – rispose Eve, guardandolo, come ipnotizzata.
Adam guardò l’orologio e vide che mancavano ancora le lancette.
«Non è possibile! Credevo che sarebbero tornate!», pensò tra sé.
– Guarda! – disse Adam, mostrandole l’orologio.
– Cosa? – rispose Eve, sorpresa.
– Le lancette?
– Cosa sono le lancette?
– Mi stai prendendo in giro?
Eve lo guardò stupita, in silenzio. Sul suo volto apparve un’espressione di perplessità.
– Le lancette dell’orologio per segnare le ore e i minuti.
– Qui non esistono le lancette, solo un quadrante dove vi è riflesso il tempo della coscienza.
– Come sarebbe a dire “qui non esistono le lancette”?
– Sei in un altro piano spazio-temporale. Non saprei come spiegartelo. Immagina di essere nel mondo dei sogni, nel mondo dove tutto è possibile, anche l’impossibile.
– E come calcoliamo le ore, i minuti?
– Il tempo è una struttura mentale creata per bloccare la nostra fantasia… Abbatti il concetto-tempo e otterrai la libertà. Tu ed io siamo il prodotto di un sogno, un sogno chiamato Amore.
Eve gli prese la mano e incominciò a correre.
– Seguimi…
Gli occhi di Adam brillarono, e il suo cuore si aprì. Come rapito da un suono ancestrale che lo ricollegava alla sua essenza divina, si lasciò trasportare nel mondo del continuo-infinito-presente.
Eve si fermò nei pressi del molo che conduceva all’immensità del mare. La sua lunghezza si estendeva oltre la vista dei due, raggiungendo un orizzonte sconfinato. I loro respiri erano l’uno il riflesso dell’altro. Tutto il loro essere vibrava nel sempiterno vagare di un’onda spumeggiante. Le mani erano unite in un intreccio dorato.
Eve osservava in contemplazione il flusso di energia attraversare i loro corpi.
– Qui ogni cosa è possibile, anche volare. Ti fidi di me? – chiese Eve con voce dolce.
– Sì, mi fido di te, – rispose Adam con voce elegante.
– Ora lasciati fluire nella tua essenza e abbandona ogni ricordo. Corri con me lungo il molo, e vinci tutte le tue paure. Noi possiamo volare.
Adam esitò un istante, poi si girò verso Eve e le fece un sorriso radioso.
– Sono pronto.
I due si strinsero la mano e incominciarono a correre lungo il molo. I loro corpi erano attraversati da una brezza serica che, a poco a poco, li sollevò a mezz’aria. Il mondo di sotto appariva ai loro occhi sempre più distante, un minuscolo punto geometrico sommerso da nuvole cangianti.
Più salivano, più aumentava in loro il desiderio di congiunzione. I corpi fremevano a contatto l’uno dell’altro. Un’estasi dionisiaca soggiaceva nell’iride dei loro occhi.
Adam strinse a sé Eve e incominciò a baciarla con ardore. Un impeto fomentava le mani degli amanti che raggiungevano i reciproci sessi, fonti zampillanti di ebbrezza. I respiri sensuali e i gemiti investivano il cosmo di un campo di energia luminosa, riversando nell’etere una Terza Forza. I corpi dei due si unirono in un’elevazione dell’essere e suadenti spasmi attraversarono le loro anime, perse in una sublime estasi d’Amore. Il volo cresceva a contatto con il rapimento dei sensi. Erano angeli del firmamento, il Sole e la Luna di una fusione alchemica.
Una tempesta magnetica irruppe nel cielo. Un fulmine li investì di colpo, attraversando i corpi dei due divenuti Uno. Si risvegliarono nudi in un giardino edenico, accanto ad un imponente albero.
– Dove siamo? – chiese Adam, gli occhi leggermente socchiusi.
– Al principio, ci troviamo nel luogo da cui siamo partiti. Siamo oltre la dualità, ora siamo partecipi dell’Uno, – rispose Eve, accarezzandogli i capelli.
D’un tratto una luce abbagliante li investì e da lontano scorsero un angelo che li stava raggiungendo.
Il suono di una sveglia invase l’etere. Le flebili pareti dell’oniricità furono travolte dall’inconsistenza del Reale.
Eve si svegliò di soprassalto e spense il cellulare. Una sensazione di benessere cullava il suo corpo come un vascello trasportato negli anfratti di un mare voluttuoso.
«Stavo solo sognando…», pensò.
Il ricordo del viaggio estatico si aggirava come uno spettro invisibile nella mente.
«Eppure sembrava così reale. Più reale di questa coperta o di tutto ciò che mi circonda…».
Si rigirò nel letto, intenzionata a dormire ancora per alcuni minuti. D’un tratto una piuma d’angelo posata sul cuscino illuminò con il suo riflesso perlato il viso di Eve. Un senso di piacere e calore dilatò il cuore della donna. Chiuse gli occhi, un leggero sorriso fluttuò sul suo viso. Si addormentò, in attesa di ricongiungersi con il suo Sposo, che l’attendeva oltre la terza dimensione: suo dedalo opalescente di mistica bellezza.
“L’amore è una scala:
comincia con una persona e
finisce con la totalità.”
Osho
Camminavano da alcuni giorni lungo una scalinata cosparsa da lastricati di cristallo. Si trattava di una scalinata a cui si accedeva dal centro della terra, in un regno sotterraneo abitato da saggi, entità celesti ed essere divini, sospeso tra le creste dell’Himalaya.
Era un mondo ribaltato immerso in una valle verde smeraldo, un soffio di leggerezza che non aveva confini, una valle incantata dove tutti gli stili architettonici erano armonicamente rappresentati in un processo circolare di contaminazione reciproca, una landa di pace da cui aveva avuto origine la terra. Era ovunque per chi era in grado di amare, da nessuna parte per chi aveva smesso di sognare. Per questo motivo era divenuto un luogo inviolabile, un regno a cui l’uomo non poteva accedervi fintantoché non avesse estirpato dal suo cuore la negatività delle emozioni.
Aradia e Audax avevano salutato con grande affetto tutti gli abitanti del regno di Shambhala e si erano diretti con fermezza e audacia oltre le sue porte. La donna indossava una tunica rossa con una cordicella gialla, mentre l’uomo una tunica blu ricamata con simboli dell’universo che contenevano le forme primordiali dello spirito riflesso. Entrambi portavano degli zaini sulle spalle.
Aradia si fermò di colpo nei pressi di una piazza minoica ed alzò gli occhi verso gli edifici di stile ellenico che attorniavano la piazza. Una luce scintillante scaturita da una pietra verde preziosa posta al di sopra di un minareto si estendeva nelle vie, rilasciando l’essenza della vita eterna nei corpi di gloria del regno. Audax si voltò e vide Aradia in mezzo alla piazza, in ginocchio. La raggiunse come trasportato dalla brezza di un vento sensuale.
– Aradia! – sussurrò l’uomo nel sé della donna.
– Sento già la mancanza di questo regno, – rispose Aradia, gli occhi rivolti alle colonne doriche che sembravano fuoriuscire direttamente dalle spire avvolgenti della natura.
– Dobbiamo andare. È il nostro compito, – disse l’uomo, prendendola per mano.
– Come posso lasciare tutto? Lasciare te? – chiese Anadia. Gli occhi della donna brillarono impercettibilmente.
Audax si avvicinò con passo leggero, la strinse a sé e la abbracciò teneramente. Il contatto dei due rilasciò nella piazza un fulgore abbagliante che si riversò sull’intero regno. L’uomo la guardò intensamente negli occhi.
– Non saremo mai distanti, – le disse con calore. – Un giorno sognerai questo istante di pace, il nostro abbraccio e ti ricorderai di me, di Noi. Così, a poco a poco, incomincerai a capire il motivo del nostro viaggio.
Audax sorrise accarezzandole i capelli dolcemente. Poi avvicinò le sue labbra alle labbra della donna e si abbandonò nelle sue braccia, lasciandosi travolgere dall’impeto dell’Amore, perso in un ovattato oceano di passione. I loro corpi si unirono in un vortice brulicante, e le anime si fusero l’una nell’altra. I loro destini sarebbero stati legati come fili invisibili in una rete divina. Nessuno avrebbe più potuto separarli. Come due calamite si sarebbero attratte oltre le vette innevate di uno spazio infinito.
– Ora dobbiamo andare, – sussurrò l’uomo all’orecchio della donna.
Aradia si asciugò le lacrime dagli occhi e afferrò la mano di Audax. D’un tratto fu investita da un senso di calore e di pace. Si lasciò così trasportare oltre il tempo e lo spazio, per giungere alla grande scala delle rinascite.
Erano in viaggio da molti giorni ormai, ma non sentivano né i morsi della fame, né stanchezza alcuna. Nonostante lo sforzo scaturito dall’altezza della scala, sembrava che i loro passi fossero in realtà voli leggeri di pura soavità. I loro movimenti, armonici e costanti, rilasciavano nell’etere un bagliore luminescente che illuminava il percorso di chi sarebbe venuto dopo. I pensieri erano rivolti al percorso che stavano intraprendendo, in quell’istante presente che costituiva il culmine del loro essere.
Ad ogni passo, il tempo veniva risospinto oltre la dimensione nella quale vivevano. Sostavano in una dimensione intermedia, in un continuo infinito presente, che li conduceva ad essere pura essenza di luce.
Non appena giunsero alla fine della scala, Aradia provò un brivido improvviso. Audax si girò di scatto verso di lei.
– Siamo giunti al passaggio, – disse l’uomo in tono deciso.
– Non so cosa mi stia succedendo… Non voglio dimenticare tutto, dimenticare te, il regno, – disse Anadia. Il cuore le batteva fino a farla soffocare.
– Tu ricorderai… In questo zaino ho portato con me tutti gli oggetti che ti donerò, permettendoti di ricordare, e i libri che mi riveleranno lo scopo della mia missione. Abbiamo scelto di rinascere sul pianeta Terra per aiutare l’umanità ad evolvere. Noi porteremo l’Amore, la Vera Volontà e i Sogni. L’uomo ha bisogno di sognare per rigenerare l’energia della Terra. Solo sognando e aprendo il suo cuore l’uomo potrà comprendere di vivere nel Tutto, incominciando a sentire di essere un frammento dell’Amore Universale. Il pianeta avrà bisogno dei tuoi sogni, amore mio.
Anadia fece un sorriso serafico. Oltre la scala si stagliava un vortice spiraleggiante da cui sembrava provenire il suono cosmico dell’universo. Uno ad uno entrarono oltrepassando la soglia. I loro visi erano solari. Il cuore era aperto al calore incessante di un sole che irradiava dall’interno. Di colpo, si ritrovarono a volteggiare nell’universo, in mezzo alle stelle, trasportati dalle galassie infinite che fluttuavano nei frammenti dell’Uno. A poco a poco i due si distaccarono lasciandosi condurre nei corpi ai quali erano stati designati, varcando i confini dello spazio-tempo.
Sulla terra l’amore universale avrebbe avvolto le vite di due famiglie, alle quali sarebbe presto giunta la notizia di un nuovo arrivato.
Irene Belloni
“Cecio andò a cercare l’asino, il suo vecchio asino. E lo trovò nella stalla, accanto a quell’altro con cui era venuto. Cecio si mise ad accarezzare il suo, e gli diede da mangiare dell’orzo. Poi distribuì equamente il foraggio ad entrambi.
“Allora, voi due, vi fate buona compagnia? Non siete gelosi? Siete ben più saggi degli uomini: non c’è odio nei vostri occhi! Questo è un giorno felice per me; se i miei lo sapessero, i loro cuori sarebbero pieni di collera; dì, vecchio mio, mi capisci? Ma sì! Hi-ha! Che peccato non poter parlare, tu e io!… Ora sono stanco, non fate rumore: voglio riposare un’oretta tra voi.”
Egli si distese e si addormentò.
E improvvisamente sentì gli asini che parlavano tra loro. Il Vecchio disse al nuovo:
“Non battere lo zoccolo, lascia dormire Cecio!”
Il Nuovo disse:
“Chi è Cecio?”
“Quello che sta dormendo qui, in mezzo a noi.”
Il Nuovo disse:
“Ma no, si chiama Her-Bak!”
“No, è Cecio.”
Il Nuovo sbuffò dalle froge e disse:
“Lasciamo perdere! Non mettiamoci a litigare come degli uomini!”
Il Vecchio disse:
“Hai ragione! E’ già terribile che Cecio ci possa credere gelosi!”
Il Nuovo sbuffò tre volte come per ridere:
“Gelosi! Bisogna essere in due per essere gelosi!”
“Già, ma il bambino è convinto che noi siamo due”
“Sì, ragiona anche lui come gli uomini che contano le greggi, e dicono: gli asini, le mucche, i cani.”
“La cosa più buffa è che dicono: le formiche, le api!”
Il Vecchio scrollò il capo:
“E’ come se dicessimo ‘due uomini’ parlando dei loro occhi, o ‘due uomini’ parlando delle loro orecchie, e così via”
“Sì, ma non continuare, ti prego, è troppo stupido. Finchè si crederanno separati in tanti piccoli uomini, si combatteranno, è evidente. Sono davvero persuasi di essere indipendenti gli uni dagli altri!”
Isha Schwaller De Lubicz in Her-Bak Cecio
Un capannone di dimensioni colossali sovrastava Alice. Da ogni parte sbucavano persone, a piedi, o su piccole geep. Di colpo si avvicinò una signora con un camice bianco e degli occhiali appoggiati sul naso, guardandola come se fosse una piccola creatura impaurita.
– Ti sei persa piccola? – disse la donna.
– Veramente no. Sono qui per accedere al sistema.
– Hai più di 20 anni?
– Certo, sono al secondo anno di università, – rispose Alice, mostrandole la sua ID.
– Vieni pure.
All’interno vi era un buio spettrale. Passarono per un corridoio illuminato a neon in cui vi erano numerose porte da cui ogni tanto uscivano donne in lacrime, uomini sorridenti e ragazze ilari, seguiti da scienziati che si guardavano attorno con aria circospetta. Vi era un odore acre e pungente. Alice si fermò perplessa ed attonita. Cosa stava facendo? Cosa le era saltato in mente di recarsi in quel luogo! La dottoressa notò l’incertezza.
– Può sempre andarsene! Nessuno la obbliga! – disse la donna con tono seccato.
– No. Proseguiamo. È solo che… Stavo pensando… – rispose Alice, raccogliendo il libro che le era caduto all’improvviso di mano.
– Ci risiamo. Tutti vengono qua, vogliono accedere al sistema e poi, incominciano a pensare ai pro, ai contro. La mente umana…
– Lei non ha alcun diritto di rivolgersi a me in questo modo! Lei non sa cosa ho dovuto sopportare! – esclamò Alice, chinandosi a terra e singhiozzando.
– Senta signorina, mi spiace davvero. Non volevo offenderla! E solo che ogni giorno si recano in questo laboratorio più di 1000 persone e per noi il programma è la normalità. Mi scuso di cuore! Se vuole, la porto nella stanza contemplativa così avrà tutto il tempo di decidere e riflettere.
– No, sono venuta qui per il sistema. Mi conduca nell’area che mi è stata riservata.
– Come vuole signorina, ci siamo quasi. Ancora pochi passi e poi l’immersione. Mi raccomando non cerchi di cambiare nulla di quello che è stato. Il sistema non ammette errori.
L’area era sormontata da leghe di metallo e silicio. Il neon delle luci rifletteva un colore argentato, a tratti blu, ad altri violetto. In mezzo vi era un sedile, sospeso nel vuoto, sul quale fu fatta adagiare Alice. Ai lati, vi erano lastre fotografiche. Scariche di energia venivano rilasciate nell’area attraverso un sistema di computerizzazione comandato da tre uomini. Un suono metallico e acuto proveniva dall’alto. La sua eco rimbombava nello spazio.
Un fragore violento fece di colpo sussultare Alice. Strinse al petto il libro, si trattava de Il processo di Franz Kafka. Si guardò intorno con la coda dell’occhio. La paura si stava ripresentando. Era certa che l’orrore del rivedere l’amato l’avrebbe spinta in un baratro infernale.
Si ritrovò seduta su di una panchina in un parco giochi. Era a Rosazza, considerato il luogo più misterioso d’Italia, un piccolo borgo progettato e costruito da Federico Rosazza Pistolet e dall’inseparabile amico Giuseppe Maffei, i quali dedicarono la loro vita all’edificazione di un’autentica città celeste. Ricordava molto bene ogni cosa, tutto sembrava così reale. A breve l’avrebbe raggiunta l’amato. Da lontano vide avvicinarsi Emanuele, vestito con un completo da uomo nero, una giacca ed un cappello a cilindro bianchi.
– Emanuele mio dolce sei tu! – gridò.
Non poteva sentirla. La salutò con un bacio sulla guancia e si sedette vicino a lei, sulla panchina, nel verde. Le montagne sullo sfondo avvolgevano i due in un caldo abbraccio, sollevando i loro sguardi verso l’infinito sentiero eterico che li collegava al cosmo.
– Sono felice di rivederti. Sei sempre più bella, – disse Emanuele, guardandola intensamente negli occhi.
Le mostrò un pacco regalo.
– Ti ho portato un pensierino.
Alice sorrise, una lacrima le attraversò il viso. Emanuele non era in grado di vederla. Scartò il pacco e vi trovò ciò che già si aspettava.
– Non dovevi, davvero. Mi metti in imbarazzo, – disse. – Non ci posso credere. Il castello di Franz Kafka. Ho finito di leggere qualche ora fa Il processo. Guarda, ce l’ho qua con me. Lo sai, mi sento pervasa da un’enigmaticità esistenziale. Tutto mi appare assurdo.
– Assurdo? E se quello che noi riteniamo assurdo non fosse altro che il depositario del senso complessivo dell’esistenza? Il tribunale, il castello nei romanzi di Kafka. Noi, nella realtà che ci attornia.
Finse uno sguardo pensieroso. Voleva abbracciarlo e stringerlo a sé ma sapeva che non poteva farlo. Nulla doveva essere cambiato. Il sistema non avrebbe permesso intrusioni di alcun tipo.
– Perché hai voluto incontrarmi in questo luogo dopo così tanto tempo? – chiese Alice.
– Perché questo luogo è suggestivo e magico. Non hai notato i simboli esoterici che caratterizzano le costruzioni? Per esempio, la svastica, la stella a cinque punte, la scala a pioli bianchi di fronte alla casa parrocchiale, le rose, l’edera che ricopre i pilastri, la clessidra…
– Cosa simboleggiano?
– La vita, la morte, il tempo, la conoscenza, la vastità, l’infinito. Sono simboli intrisi di potere, mi piace considerarli come dei messaggi criptici che collegano le realtà parallele all’universo.
– Molto interessante. Non sapevo ti interessassi di occultismo o di esoterismo.
– Vieni, – disse Emanuele, prendendole la mano.
La sua mano era calda, febbricitante. Si era immaginata una plasticità, una mancanza di vivacità e colorito. Si lasciò così trasportare fino al punto preciso verso il quale Emanuele la stava conducendo.
Un bagliore illuminò l’area. La ricostruzione mentale del luogo la persuadeva della realtà della visione. Si trovava con Emanuele nel cimitero del paese, abbarbicato sulla montagna. Attorno vi regnava una natura incontaminata e selvaggia. Un ponte di pietra e marmo, al di sotto del quale vi era un corso d’acqua, collegava il cimitero alla terra ferma. Vari simboli catturavano l’attenzione di Emanuele.
– Non ti sembra un po’ macabro! – chiese la ragazza, perplessa.
– No, non lo è. Chi l’ha costruito credeva nella metempsicosi. Voglio farti veder una cosa.
Le mostrò la scritta presente sull’arca posizionata al di sopra del cancello.
IVI UNA VITA È TERMINATA,
UN’ALTRA INCOMINCIA
FRUTTO DELLE OPERE NOSTRE
– La morte è la porta verso il Senso, – affermò Emanuele, guardandola intensamente negli occhi.
– Quale senso? La morte è priva di senso.
– Se un bambino ti chiedesse perché si muore cosa gli risponderesti?
Alice abbassò lo sguardo. Si ricordava molto bene la risposta.
– Perché tutto è un gioco effimero e la vita è fugace come l’alba, – gli disse sorridendogli.
– Io gli risponderei… Per continuare a vivere.
Non entrarono all’interno del cimitero per rispetto dei morti. Si fermarono davanti al cancello e ne osservarono la maestosità. Una clessidra, attraversata da arbusti e fiori, era dipinta sulle due porte centrali. Si ergeva su radici e dava vita nella parte superiore a rose incantevoli. Davanti alla porta vi era disegnato un mezzo sole da cui si dipanavano cinque raggi. Ogni cosa era intrisa di magia e significato. Emanuele si avvicinò a Alice.
– Voglio farti vedere un antico castello. È qui vicino. È da tempo che desidero entrarci, ma mi è sempre stata negata l’entrata.
Si incamminarono mano nella mano, mentre tutto lentamente si dissolveva dietro di loro.
Un flash-back preceduto da un lampo di luce folgorò Alice. L’immagine tridimensionale di Emanuele era accanto a lei. Si trovava nei pressi del castello. Non era antico sebbene l’estetica ne tradisse la storia. Era stato costruito a fine Ottocento da Federico Rosazza Pistolet, senatore del Regno, maestro venerabile della massoneria biellese e membro della Giovane Italia di Mazzini. Una torre guelfa dominava la visione sul paese sottostante. Vi erano finti colonnati ed architravi dai colori accesi. Le murature erano sbrecciate e al centro del giardino vi era un pozzo. Secondo i più era un pozzo senza fondo che conduceva nel regno della magia. Si diceva che un uomo vi avesse fatto ritorno ed avesse acquisito poteri sovrannaturali. Per accedere al giardino occorreva passare attraverso un cancello. Un donna dai lineamenti grotteschi controllava l’accesso negando l’entrata ai molti. Al di sopra del cancello vi era un arco simile a quello di Volterra. Tre teste di valigiane si ergevano con una stella a cinque punte tra i capelli.
Giunti dinnanzi al castello, Emanuele le indicò il cancello.
– Proviamo ad entrare? – chiese il ragazzo sotto voce.
– Vai prima tu! – rispose Alice.
Emanuele si avvicinò al cancello, seguito da Alice. La donna-guardiano li guardò impassibile per alcuni minuti senza dire nulla. Poi, afferrata la chiave, la infilò nella serratura e li fece entrare.
– Dopo di voi devo chiudere, non può più entrare nessuno, – affermò la donna.
Alice riconobbe quella frase. Il processo di Kafka. Nel momento in cui Joseph K. si reca al suo primo interrogatorio ed entra in una delle stanze del tribunale, una donna chiude la porta dietro di lui utilizzando le medesime parole. Ne era certa. Chissà se aveva un’attinenza con tutto quello che era successo dopo il loro incontro! Nel frattempo Emanuele stava osservando la bellezza del luogo, e non appena vide lo sguardo preoccupato di Alice, si avvicinò incuriosito.
– Ti senti in colpa? – le domandò.
– In colpa? Per cosa? – gli rispose con sdegno.
– Daniele. Lui è a Londra a lavorare e tu… Tu sei qua. Con me!
Alice non si ricordò precisamente la risposta che gli aveva dato in quell’occasione. Decise così di cambiare e dirgli ciò che allora gli aveva nascosto, sebbene sapesse che un minimo cambiamento poteva compromettere il sistema.
– In verità… Daniele è andato a Londra non solo per lavorare! Ha conosciuto una ragazza in chat e…
Emanuele svanì per un istante. Un rumore assordante rimbombò nell’etere. Una scintilla attraversò il viso dell’amato. Un silenzio vertiginoso catturò la sua figura. Di colpo Alice ricordò la frase che aveva utilizzato.
– Non mi ritengo colpevole. È una faccenda da nulla. Preferisco non parlarne, – esclamò Alice preoccupata.
– D’accordo, – rispose.
Alice tirò un sospiro di sollievo. Era riuscita a salvare il sistema. A quanto pareva, non si transigevano variazioni.
Camminarono sotto i portici del castello. Un colore rosso vivo si stagliava sulla parete della palazzina. Si fermarono in prossimità del pozzo.
– Qual è la tua più grande paura? – le chiese Emanuele, mentre le cingeva la vita con il braccio.
– L’oblio. Non posso sopportare di dimenticare quello che è stato, le esperienze vissute, le persone incontrate.
– Lo sai è proprio per questo che l’uomo teme la morte!
– Tu non la temi? – domandò Alice scostandosi un poco. Nella sua mente pensava alla morte improvvisa dell’amato, a cosa avrebbe potuto fare per evitarla. Emanuele la guardava fisso negli occhi.
– Io temo la nequizia. Temo la falsità. Temo il vero Amore.
– Come puoi temere ciò che non conosci?
– Io ti conosco.
– Nessuno conosce il vero Amore. E nemmeno la Verità!
– Ricerchi la verità?
– Se solo esistesse!
– La verità è un affare contingente, è individuale. Non esiste una verità universale. Ognuno deve ricercare la sua Verità.
Alice lo guardò desiderando ardentemente di tenerlo stretto a sé per sempre. Sapeva che non avrebbe potuto farlo. A breve, ogni cosa si sarebbe persa. Emanuele. Il loro amore. Il ricordo.
– Tutto ciò non ha senso, – gli disse, abbassando lo sguardo.
– Il castello ci ha accolto. Ogni cosa d’ora in poi avrà senso. Noi, il nostro incontro, il passaggio sulla Terra nel quale sostiamo per breve tempo, – le prese le mani. – Gli incontri non sono mai fortuiti. Non sono generati dal caso, ma dalle nostre scelte. Dovevamo incontrarci! Tu volevi incontrarmi! Non posso dimenticare quella prima sigaretta condivisa assieme al parco…
– È vero… Volevo incontrarti… Ma perché?
Alice si rese conto che stava per arrivare la fine. Questa sarebbe stata l’ultima volta in cui l’avrebbe visto accanto a sé, in cui avrebbe potuto abbracciarlo. Emanuele era morto poco dopo il loro incontro in un incidente automobilistico mentre stava tornando a casa. I suoi ultimi ricordi prima di morire erano stati fissati nella memoria del sistema. Per mezzo della tecnologia HOLOGRAM LOZKY, inventata dallo scienziato Francis Lozky, era possibile aver accesso alle ultime ore di vita del morto per mezzo di lastre fotografiche impressionate dalle figure di interferenza, prodotte mediante l’olografia. Nell’area adibita comparivano le immagini e i suoni immagazzinati dalla mente negli ultimi istanti, più precisamente nelle ultime 3 ore, ed il corpo e la fisicità si rimaterializzavano per mezzo di un sistema innovativo che dava plasticità e veridicità all’immagine tridimensionale.
Il suo utilizzo era dapprincipio riservato ai casi di omicidi, morti sconosciute e suicidi. Poi, la tecnologia fu resa disponibile anche ai non addetti ai lavori dal momento in cui le persone vennero a conoscenza della possibilità di rivedere il proprio caro, di osservarlo davanti a sé, ripercorrendo gli ultimi istanti della sua esistenza. Vi erano due modalità differenti: essere testimoni dei ricordi (utile soprattutto nel campo della scientifica) o rivivere gli ultimi istanti con la persona a patto di essere stati effettivamente con quella persona prima della sua morte. Infatti, l’unico aspetto al quale bisognava attenersi consisteva nel non cercare di cambiare e forzare le cose, poiché si poteva incombere in un vero e proprio corto circuito. Tutto era registrato nella mente. Anche solo un minimo cambiamento poteva provocare la morte della persona che si trovava nel sistema a causa di un surriscaldamento delle lastre che accelerava la potenza dell’immagine, scaricando sull’ospite una corrente elettrica di 1000 watt.
Era l’ultima frase. Ora Emanuele stava per rispondere alla sua domanda, dopodichè l’avrebbe baciata intensamente togliendole il fiato. Doveva fermarlo. Non poteva lasciarlo andare di nuovo via.
– Per comprendere insieme la chiave di tutti i misteri, – disse Emanuele dolcemente, prendendola tra le braccia.
Alice lo guardò intensamente negli occhi.
– Non te ne andare. Non voglio perderti un’altra volta.
La sua frase provocò un lampo fulmineo. Stava andando contro alla procedura. L’immagine di Emanuele divenne evanescente.
– Emanuele non te ne andare!
Ad un tratto gli occhi di Emanuele si fecero più profondi. Il suo corpo e la sua mente sembravano non fossero più comandati da una macchina. Un boato forte e cupo fece tremare la terra sotto di loro. Un fumo denso e soffocante li avvolse.
– Non avere paura! Ci rincontreremo Alice. Ricordati la scritta presente sull’arca, – le disse sorridendo.
Il programma non aveva previsto una presa di coscienza da parte del sistema. Il loro inseguire il senso complessivo dell’esistenza li aveva condotti alla manipolazione della realtà, dello spazio e del tempo. Attorno ai due si dipanavano scintille dai colori luminescenti. Di colpo due fiamme roventi si levarono nell’area e, come due lingue intrecciate di un falò incandescente, si sollevarono verso l’etere cosmico. Una scarica elettrica colpì improvvisamente la ragazza. La morte la raggiunse all’istante per condurla dove Emanuele la stava attendendo. Un’altra vita si stava per profilare all’orizzonte dei due, frutto di un amore sconfinato.
Irene Belloni
“L’arcobaleno è il sorriso capovolto di una nuvola dopo aver pianto a dirotto. Non tutte le nuvole sorridono, poichè solo poche comprendono la saggezza racchiusa nella pioggia”.
Irene Belloni